21 Novembre 2016

Lo stress somatizzato

Con tale termine si fa riferimento ad una condizione in cui l’organismo umano e il corpo fisico vivono  uno stato di turbamento prolungato nel tempo. Lo stress è un connotato esistenziale specifico dell’uomo, a dispetto di tutti gli altri essere viventi che non ne soffrono.

Nella realtà dei fatti lo stress non è qualcosa di dannoso o debilitante.

Hans Selye (1936), rinomato medico austriaco, lo ha definito come “condizione aspecifica in cui si trova l’organismo quando deve adattarsi alle esigenze imposte dall’ambiente”. Trattasi quindi di una comune reazione umana di fronte a richieste, difficoltà o prove a cui ci sottopone il contesto di vita.

Abbiamo un pregiudizio sulla parola stress. Esso, infatti, non necessariamente indica qualcosa di  negativo. Sperimentiamo  una forma di stress positiva (eustress)  quando il nostro organismo mantiene un livello di allerta e controllo permettendo risposte reattive e di conseguenza un maggiore adattamento alle esigenze ambientali. Pensiamo per esempio allo stress pre-esame il quale se contenuto ad un livello accettabile, permetterà allo studente di essere più concentrato sul compito.

Ma se la reazione di stress raggiunge dei livelli troppo elevati tali da portare lo studente a perdere il controllo su di sé, la concentrazione e la motivazione, questa attivazione diventerà disfunzionale e si parlerà di distress, ossia di stress negativo. Lo stress diventa negativo quando questa “stra-ordinaria” reazione di adattamento diventa troppo intensa, o prolungata nel tempo, portandoci a vivere il quotidiano in maniera troppo unilaterale senza la possibilità di poter dare voce al nostro abitudinario e  personale modo di agire. Questa condizione di perenne attivazione disfunzionale, se protratta nel tempo, può portare in alcuni casi ad un progressivo esaurimento delle risorse fisiche e psicologiche dell’individuo. In altri casi i soggetti, che si trovano a vivere tale condizione, possono subire variegate forme di somatizzazione. Il termine soma deriva dal greco “sòma” (il corpo di un organismo) e dal latino volgare “sauma” (peso, carico da trasportare). Quest’ultimo mi sembra sia il più adeguato ad indicare tale fenomeno in Psicologia.

La somatizzazione è in effetti un peso, un carico da 90 imposto al nostro apparato corporeo. Si tratta di un modo altamente individuale e variegato con cui “appesantiamo”e stressiamo il nostro corpo, preferiamo che sia lui a portare il peso del disagio psicologico vissuto. Il corpo, da noi sollecitato, risponde fisiologicamente e reattivamente a questa condizione di stress da noi imposta. È così che in un breve lasso di tempo si passa dalla dimensione psichica a quella corporea. Tale processo “irreversibile” implica la costituzione di un vero e proprio sintomo fisico il quale occuperà sovente i nostri pensieri sostituendosi a noi stessi, ai nostri desideri, ai nostri modi di agire e di comportarci. Probabilmente per un certo periodo di tempo  diverremo il nostro sintomo, l’attenzione che verrà rivolta allo stesso ci esimerà dal prenderci cura di noi e quindi di quel conflitto o disagio psicologico mai affrontato che ci ha posto in una siffatta situazione.

Ma non tutti i mali tuttavia vengono per nuocere. Ebbene la condizione di estrema vulnerabilità psicologica vissuta e subita in tali momenti di vita rende il nostro apparato psichico più malleabile, flessibile come fosse argilla al punto tale da poter essere modellato sulla base di nuove consapevolezze raggiunte in occasione della patologia. Nella maggior parte dei casi il momento della somatizzazione o della sopraggiunta malattia psicologica viene risolto e superato non appena giunge l’eliminazione del sintomo a cui di solito corrisponde anche il ripristino del vecchio assetto caratteriale e personologico del soggetto. Nei casi rari in cui ciò non accade si assiste invece al raggiungimento di un maggiore equilibrio psichico, di una estensione del livello di consapevolezza individuale associato ad un modo molto più adattivo di affrontare la vita.

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